A questo punto della storia è necessario che tu mi 

segua in un viaggio nel tempo e torni con me ai miei trent’anni, al momento in cui con qualche anno di esperienza professionale alle spalle, maturata un po’ in Italia e un po’ all’estero, mi sono lasciata trasportare dal caso (che non esiste) … e, senza una grande consapevolezza, ho iniziato a costruire la mia vita di donna adulta e realizzata.

Ho fatto tutto ciò che era necessario fare per costruirmi la vita che (non – ma non lo sapevo ancora) volevo, ma che mi fece guadagnare la stima di tutti.

Avevo in tasca una laurea in filosofia e più di 5 anni di esperienza nell’ambito della formazione, delle risorse umane e dell’orientamento al lavoro; avevo molti contatti e competenze; avevo energia e voglia di fare; avevo fiducia e coraggio; e, forte della mia innata creatività, avevo in testa anche un’idea imprenditoriale innovativa per quegli anni (eravamo nel 1999) che secondo me poteva funzionare!

Misi tutto nel calderone e fondai la mia azienda. L’inizio non fu facile. Mi diedi una dead line precisa: o la va o si chiude baracca e burattini! Andò. 

E nel giro di qualche anno mi ritrovai a essere una giovane e brillante imprenditrice con uno stipendio da favola, un ufficio di proprietà in centro arredato di tutto punto, vari benefit come auto e cellulare pagati, una socia che era anche un’amica e un nutrito staff di collaboratori tutti regolarmente assunti. 

Avevo comprato la mia prima casa, facevo vita sociale tutte le sere e mi permettevo tutto ciò che si potesse desiderare: oltre agli immancabili libri, viaggi, palestra e corsi di vario genere (mi è sempre piaciuto imparare cose nuove), mi concedevo anche abiti, scarpe, accessori e cosmetici di prima qualità (per usare un eufemismo). 

Da lì a breve arrivò anche il matrimonio, una nuova casa … insomma una vita apparentemente perfettaMa perfetta per chi?

“Scacciate i vostri sogni e questi vi si  

ripresenteranno, immancabilmente” sentenzia Julia Cameron. E infatti i miei si erano ripresentati proprio belli puntuali.

L’azienda andava a gonfie vele e mentre avanzavo in questa vita apparentemente perfetta agli occhi di chiunque guardasse da fuori, io iniziai a sognare il teatro. Ogni santa notte io sognavo di trovarmi in teatro.

Il teatro e l’arte in generale era sempre stato il mio sogno di bambina. Lavorare in teatro, fare l’artista .. l’avevo dimenticato! Così iniziai a studiare teatro, mi buttai a capofitto a risvegliare la mia antica passione, investii tutto il mio tempo libero e le mie risorse per imparare, sperimentare, vivere e respirare d’arte. E in breve mi guardai intorno e mi resi conto che avevo dimenticato il mio sogno e stavo lavorando per realizzare il sogno di qualcun altro.

Vivevo un assurdo paradosso: mi rendevo conto che la strada che avevo imboccato era sbagliata, ma mi straziavo all’idea di abbandonarla perché l’azienda in cui lavoravo l’avevo creata io. Nessuno mi aveva costretto a farlo! Avevo fatto tutto da sola. Dopo la laurea avevo iniziato subito a lavorare, mi ero sempre impegnata al massimo, avevo colto ogni occasione di crescita, mi ero trovata giovanissima a rivestire un ruolo di grande responsabilità che mi aveva sempre fatto sentire fiera di me stessa. 

Tutto quello che avevo ottenuto era frutto del mio grande impegno, 

del mio senso di responsabilità e della mia disponibilità al sacrificio. 

Possibile che fosse tutto da rifare? Iniziai a sentirmi profondamente infelice e insoddisfatta. 

E anche arrabbiata! Come avevo potuto permettere che succedesse?

 E già, perché questo era ciò che era successo!

Successo = Participio passato del verbo succedere

Avere successo significa far succedere ciò che vuoi che succeda. Perché questo accada serve che tu sappia cosa vuoi e che nessuno ti metta in testa la convinzione che ciò che vuoi non è realizzabile o, peggio, che non ha valore o, peggio del peggio, che tu non lo meriti.

 E qui, se ancora non hai smesso di leggere, facciamo un altro viaggio nel tempo e torniamo alla mia adolescenza.

 

Da ragazzina mi ero iscritta a un corso di teatro. Iniziai così a scoprire la magia di sentire le emozioni scorrere nel mio corpo senza doverle nascondere. In quella cantina un po’ polverosa dove si svolgevano le lezioni godevo di ogni istante, bevevo ogni goccia di sapere e di esperienza, facevo le prove e imparavo a essere vera, autentica. Chi ha detto che gli attori imparano a fingere? 

Venne il giorno in cui l’insegnante assegnò le parti per lo spettacolo di fine anno. Chiamava due o tre nomi alla volta e distribuiva fogli fotocopiati. In pochi minuti tutti ebbero il testo della loro scena e il proprio o i propri compagni di avventura. E io? Maria Chiara tu farai un monologo! Mi ritrovai in mano un plico di fogli stampati fitti fitti: un lunghissimo soliloquio drammatico su cui i miei occhi si fermarono inorriditi!

Fu lì che iniziò la mia tragedia!

L'idea di affrontare il pubblico da sola 

mi terrorizzava. Tornai a casa e mi chiusi in camera mia a leggere quei fogli che per me erano pesanti come macigni. Sul palco da sola con tutte quelle parole in testa che avrei dovuto imparare a memoria: non ce l’avrei mai fatta! Come ero solita fare all’epoca, mi chiusi in me stessa, non ne parlai a mia madre, non ne parlai alla mia insegnante di teatro, non ne parlai nemmeno alle mie amiche. Non cercai di capire perché proprio io, non svelai a nessuno la mia paura di non farcela, non cercai alleati per superarla. Niente. Come un gatto quando sta per morire, mi nascosi. Mi limitai a immaginare scenari catastrofici e tremendamente umilianti in cui salivo sul palco e non mi ricordavo una parola, sentivo risuonare le risate e i fischi del pubblico, mi vedevo immobilizzata e muta davanti a tutte quelle persone che aspettavano solo che facessi e dicessi qualcosa, percepivo lo sguardo tagliente e deluso della mia insegnante e sentivo la sua voce urlarmi cose irripetibili. Immaginavo la delusione dei miei cari.

E così è successo. È successo che scappai. Non mi feci più vedere alla scuola di teatro e quando mia madre mi chiese cosa fosse successo le risposi che in fondo non ci tenevo poi così tanto ...


Bugia!

Bugia a mia madre e – ancor più grave! – bugia a me stessa. Ma cosa potevo farci! All’epoca ero solo una ragazzina impaurita e non avevo certo le competenze e gli strumenti per uscire diversamente da quella situazione. 

Fu così che caddi nel tranello! Vittima dell’incantesimo dell’oblio, dimenticai il mio sogno. Pietrificata dalla paura, mi convinsi che solo uno su un milione ce la fa e quell’uno non sarei certo stata io. Presi per buone tutte le teorie più disfattiste sugli artisti, tipo che sono tutti spiantati e morti di fame e che, quindi, in fondo non me ne importava così tanto. Bugia!

Bugia che da lì in avanti iniziò ad allontanarmi 

da me stessa bloccando la mia creatività, facendomi sentire in colpa per aver nutrito un sogno artistico e facendomi prendere decisioni in base a desideri che non erano miei, ma di altri.

E quando, dopo anni di bugie che mi sono raccontata, iniziai a dare segni di volermi liberare da quella che era una galera per il mio spirito creativo, mi sentii redarguire e spingere a essere più ragionevole e rischiai ancora una volta di farmi sovrastare dal senso di colpa, di enfatizzare la mia modestia, di soffocare il mio sogno che temevo potesse ferire gli altri.

Ma avrei ferito di nuovo me stessa!

Non lo feci perché, grazie all’arte e a tutti i percorsi fatti che mi conducevano proprio qui dove sono oggi, avevo imparato a desiderare, a chiedere, a credere.

Avevo recuperato il mio sogno ed ero pronta a impegnarmi per realizzarlo.

Avevo capito che forse, anni prima, quel monologo era il riconoscimento di un talento che io non ero stata capace di vedere e di sentire!